È sempre più comune definire “tartufo” qualsiasi specie di fungo che nasca sottoterra.
In realtà sarebbe bene spiegare un po’ meglio di che cosa si sta parlando ogni volta che lo si cita.
Riepilogando brevemente. Quando ci sono lustrini e paillette molto spesso si tratta di Tuber magnatum. Praticamente tartufi bianchi, che tra qualche mugugno in Italia molti chiamano “d’Alba”. All’estero lo fanno praticamente tutti. In un mondo ideale godrebbero di una legislazione ad hoc. Non si possono coltivare, nascono in un equilibrio vegetativo delicatissimo, non si capisce mai bene da dove arrivano, hanno un nome che evoca l’origine anche se spesso non è così. Tartufo bianco d’Alba è sinonimo generico di Tuber magnatum, nulla che riguardi l’origine. Servirebbero normi specifiche per rendere applicabile la legislazione a un prodotto estremamente pregiato e noto, ma anche originale e fuori dagli schemi della legislazione generale. Poi c’è il bianchetto e soprattutto ci sono i neri.
Sette specie commerciabili in Italia, una sessantina quelle censite nel mondo. Dentro c’è di tutto. Dal pregiato melanosporum al diffusissimo aestivum, per passare a tante specie meno note, spesso etichettate con nomignoli gergali. Sempre più spesso sono il frutto di tartufaie coltivate. Il gusto non cambia, la prassi di coltivazione, la proprietà, le conseguenti azioni commerciali dell’imprenditore che li produce cambiano parecchio. Per questo faticano a stare in una stessa norma.
L’esempio più banale sta nei calendari di raccolta: il bianco è teoricamente blindato. Ed è corretto: tutti contro tutti nei boschi, lungo i rii, sotto i viali alberati a caccia dell’esemplare. Se non ci fossero regole succederebbe ancora di più di quanto già non succeda. Ma ha un senso fare la stessa in un bosco coltivato?
Sarebbe come permettere la raccolta dei pomodori nell’orto solo in alcune settimane nell’anno.
Nessuno li raccoglie maturi o li porta a casa ormai marcescenti… In teoria finirebbe qui, ma la cosa è sempre meno vera. Le specie sono tante di più, la Cina produce Tuber indicum in quantità importanti e lo esporta in Europa. Innanzitutto in Francia, dove la legge ne permette la vendita. Il tartufo cinese finisce in salse e preparati. Una volta aggiustato, più che legittimamente, con aromi industriali, come fa grande parte dell’industria conserviera in tutto il mondo, perdono ogni riconoscibilità e diventano materia base salubre e ammessa. Nell’ultimo disegno di legge in discussione in Parlamento fino alle ultime ore della scorsa legislatura, sembrava ci potesse spazio anche per una regolarizzazione in Italia. Ma prima il timore che un’eventuale dispersione di spore nell’ambiente potesse contaminare le tartufaie delle nostre, poi l’iter legislativo particolarmente sfortunato, rimandò ogni discussione alla prossima tornata parlamentare.
Sarebbe ora di aprire un capitolo nuovo anche sui non tartufi. In gergo sono noti come tartufi del deserto, ma in realtà non sono assolutamente appartenenti ai Tuber. Sono funghi, nascono nel sotto suolo, hanno un colore tra il giallo e il grigio. Alla vista non sono troppo diversi dai tartufi bianchi, il profumo non ha punti in comune. Ma dall’Iran arrivano segnalazioni di un business che cresce. Qualche mail per trovare mercato è arrivata anche al Centro Nazionale Studi Tartufo.
Tutto per dire che si fa presto a dire tartufo, ma serve un’attenzione sempre più forte quando si legifera, quando si controlla, quando si compra, quando si consuma.